La collaborazione dei Tritoni Verticali con il progetto West Climbing Bank nasce per caso.
Nel tardo autunno 2018 sui social appaiono alcuni post di un gruppo di giovani climbers che cercano materiale usato.
Hanno in progetto di portarlo in Palestina, nel West Bank occupato, dove da un anno portano avanti un progetto di arrampicata con l’associazione locale Leylac sita nel campo profughi di Deishe a Betlemme.
Al sottoscritto (Manuel) viene l’idea di contattare il gruppo per chiedere se potesse far comodo la mano di un chiodatore con un po’ di esperienza.
Ed ecco che nasce la collaborazione tra Tritoni e WCB.
I climbers che portano avanti il progetto sono per lo più milanesi militanti per la causa palestinese.
Lato Tritoni diciamo che l’aspetto politico viene lasciato fuori dalla vita del gruppo, però in questo caso predomina la componente ludico/sportiva e sociale del progetto.
Infatti, al di la di tutto, è davvero bello pensare che l’arrampicata possa diventare un’attività di “decompressione” per dei ragazzi che vivono una realtà di conflitto da quando sono nati.
I ragazzi del collettivo milanese lanciano iniziative ed un crowfounding con il quale riescono a racimolare un piccolo capitale da spendere in materiale di chiodatura.
Grazie a contatti pregressi riusciamo a trovare del materiale di prima qualità ad un ottimo prezzo in modo da massimizzare la resa della colletta.
Dopo eventi di autofinanziamento, il progetto “in loco” si sviluppa tra l’ultima settimana del 2018 e la prima del 2019.
L’impatto emotivo è fortissimo.
Nonostante avessi già viaggiato in Israele con amici israeliani, a muoversi con ragazzi palestinesi nel West Bank sembra di essere su di un altro pianeta.
Senza addentrarmi negli aspetti geo politici, diciamo che si avverte subito l’incredibile difficoltà a fare ogni cosa, anche la più piccola, come uno spostamento di pochi chilometri.
Il progetto è mirato a chiodare delle pareti di calcare nei pressi del villaggio palestinese a maggioranza cristiana di Battir.
Ai tanti che mi hanno chiesto “…ma andate a chiodare a Gaza?” posso rispondere che il West Bank è una realtà totalmente differente da Gaza per mille motivi.
Questo non per voler girare la testa dalla parte opposta di Gaza, ma per dare un contesto preciso al progetto.
Battir si trova vicino a Betlemme, che a sua volta sta a Gerusalemme come Monza sta a Milano o Rivoli a Torino o Ciampino a Roma.
Dal Villaggio si accede ad una piccola valle, Wadi Makhrour, disseminata di uliveti , terrazzamenti , resti romani, e patrimonio dell’Unesco
Anche qui il conflitto è palpabile.
Infatti il luogo che si pensava di chiodare viene abbandonato a causa delle incursioni dei coloni che cercano di sottrarre indebitamente una collinetta sovrastante.
Ci si sposta di alcune centinaia di metri, in modo da mantenere una certa distanza con quella che forse sarà una nuova colonia.
Il periodo dell’anno è il peggiore che si possa scegliere per andare in Palestina, ma è anche l’unico durante il quale più o meno tutti possono partecipare attivamente prendendosi ferie.
Fa più freddo che in Italia ed è molto piovoso, senza contare che essendo ospitati nel campo profughi, luce, acqua, riscaldamento ed acqua calda sono beni che ci sono solo a momenti.
Nonostante tutto nell’arco delle 2 settimane riusciamo a chiodare una ventina di linee in due falesie distinte, la prima delle quali articolata in più settori di diversa altezza e difficoltà.
La cosa più bella sono i due giorni in cui si porta a scalare i ragazzini del campo profughi.
Quella che era un’idea diventa realtà.
Teniamo conto che nel campo profughi la media dell’età è bassissima, quindi non manca certo la materia prima.
Il materiale raccolto nelle collette fatte dal gruppo durante l’anno basta per fare arrampicare tutti.
C’è anche il tempo di conoscere alcune realtà associative locali che cercano in modi diversi di resistere ad una condizione di vita davvero difficile, dove il terreno o la casa che oggi ti appartengono, domani potrebbero essere espropriate o rase al suolo.
Le parole non bastano per esprimere il senso di angoscia di un popolo che in fondo, se in passato rivoleva le proprie terre, oggi è per lo più concentrato a non perdere quello che gli è rimasto piuttosto che riconquistare ciò che in passato gli è già stato tolto.
I giorni corrono velocissimi e riusciamo a portare a termine tutto ciò che ci eravamo prefissati di fare.
Sicuramente non sarà una falesia a risolvere i problemi di una regione in guerra e dei suoi popoli, però è nelle parole di una ragazzino che il tutto acquista un senso: “questo è il posto più bello del mondo”.
Così ha esclamato uno dei piccoli palestinesi che abbiamo portato ad arrampicare.
E se l’arrampicata riesce a far sorridere per un giorno dei ragazzini che hanno ben poco di cui sorridere, allora possiamo dire che il progetto è stato davvero un successo.
Al prossimo anno.